In questi giorni in cui la pandemia ha raggiunto i picchi più alti di contagio, tutto risuona del dolore immenso dei malati, di chi è in lutto, del sacrificio profondo e totale dei sanitari impegnati in questa lotta, di chi anche di notte costruisce ospedali.
E i riflettori devono essere puntati lì. A chi sta pagando il prezzo più alto. A chi combatte in prima linea, anche a costo della sua vita stessa.
E sono certamente queste le situazioni più angoscianti alle quali anche noi psicoterapeuti e psichiatri cerchiamo di portare con priorità aiuto e sostegno.
Vorrei però dedicare questo articolo a tutti quegli sguardi che in questi giorni incontro, oltre le mascherine oppure oltre lo schermo di un pc, sguardi che si riempiono di piccole lacrime che cadono solo per sbaglio, quasi con vergogna, da parte di chi non si sente in diritto di poter soffrire.
Lacrime che ho visto nascondere o ingoiare da chi si colpevolizza sentendosi codardo e ingrato.
Perché di fronte a chi è malato, a chi ha perso una persona cara nella modalità straziante cui condanna questo virus, a chi si sta sacrificando notte e giorno per salvare vite o a cercare una cura possibile: che diritto si ha.
Questa volta vorrei scrivere pensando a chi vive dietro questi sguardi, a queste piccole lacrime, perché vorrei riuscissero a credere a ciò che anche a me è stato insegnato: che ogni dolore, piccolo o grande che sia, merita ascolto e rispetto.
Piccole lacrime come quelle di una nonna che ho sentito parlare della sua paura che la fa pregare tanto da non riuscire a dormire… che piange perché chissà quando rivedrà e se li rivedrà, i suoi nipotini cari, unica luce e sorrisi di giorni che ora deve affrontare da sola.
Piccole lacrime quelle di un ragazzino ribelle, incendiato dal primo grande amore che aveva avuto appena il tempo di scoprire, ribelle agli orari dei genitori, ribelle alle richieste di attenzione della scuola perchè pensieri ed emozioni erano solo per le ore che lo separavano da lei… ed ora questo tempo indefinito sembra una punizione crudele. Ma non si ribella. Lui resta a casa: il codice paterno dettato dalle istituzioni viene rispettato e sembra attraversare quella corazza indisciplinata per mostrarne un’anima inaspettata, responsabile e coscienziosa.
Piccole lacrime quelle di una mamma che abbraccia il suo bimbo e le racconta di un virus monello che dobbiamo combattere tutti insieme, e che la casa è come la “tana” quando si gioca a “ce l’hai” perché lì non può prenderci e “scommetti che tra poco vinciamo noi perché siamo più forti e più furbi?”. Una mamma che poi lo spera davvero di essere forte… e piange perché è da sola e se il negozio in cui lavora fallisce allora si che avrà vinto il virus.
Piccole lacrime quelle di una universitaria che con sacrificio e passione aveva organizzato la sua tesi di ricerca nelle scuole ma ora deve ripartire da una nuova idea che fatica a creare, e forse una nuova rata da pagare.
Piccole lacrime quelle di una bimba che dopo tutto questo tempo rivede i compagni di classe in una videochiamata e poi disegna una campana di Pasqua triste “perché la campanella a scuola non suona più”.
Piccole lacrime di stanchezza quelle di una mamma che ha un lavoro ancora attivo e lascia i figli a nonni anziani, affettuosi ma incapaci di comprendere la didattica a distanza, una mamma che quando rientra deve fare un respiro profondo e cimentarsi tra chat, piattaforme digitali e bambini che la sera vorrebbero solo giocare ed evadere… specialmente se non hanno un giardino, né un balcone… e forse nemmeno un cane.
Piccole lacrime quelle di un uomo solo per il quale il lavoro era l’unica occasione di incontrare lo sguardo e le mani di qualcuno, di dare un senso e un valore alle sue giornate. Ed ora si trova sospeso in una solitudine più assordante di tante ambulanze.
Vorrei dire a tutti questi sguardi di lasciar scorrere le loro piccole lacrime, anche se nessuno le potrà raccogliere o solo una mascherina le potrà asciugare.
Vorrei aiutarli a credere che non solo gli eroi possono crollare…
Elena Ortolan – Psicoterapeuta Direttore C.E.P.I.